Il mercato. Del fashion.

Non so se le avete anche voi.

Quelle amiche che ogni santa volta sfoggiano quel qualcosa di nuovo che vi fa esclamare immediatamente – anche se siete ambientaliste, anche se vi sentite a impatto zero, anche se avete giurato e spergiurato a voi stesse di ricordarvi che sì, avete già un armadio pieno di vestiti e sì, uno dei buoni propositi del nuovo anno è quello di non darvi allo shopping compulsivo e accumulatorio – che, appunto, nonostante tutto e oltretutto, vi fa inevitabilmente esplodere in un “bello… dove lo hai preso?”.

E quelle vi rispondono, scuotendo la testa con drammaticamente reale stupore: “oh, questo dici? Al mercato. 10€”.Che subito ti ribolle il sangue nelle vene a pensare che tu meno di 30 di € non riesci a spenderli nemmeno di Primark ai 16*1.Che già sai che alla domanda “okay, ma dove? Quando? E, soprattutto… perché senza di me?”, ti risponderanno che lo hanno trovato per caso “al mercato del paesello”. O, peggio: “al mercato dietro casa, ma sai, era l’ultimo pezzo”.

Così. Giusto per darti la sicurezza che c’hai la matematica certezza di non poterci incappare mai più, tu, in quello stesso affarone.

Ecco, io, così, paro paro, c’ho la migliore amica.

La regina dell’affare, la donna con l’occhio rapace che capisce cosa vale, quando vale e se vale mentre tu ancora ti chiedi al mercato cosa ci stai a fare.

Quella che non solo compra bene, ma compra per bene: che le cose le usa poi per anni e quanto te le risfodera dal guardaroba, anno dopo anno, continua a farti rosicare sul perché lei sì e tu no.

Una di quelle che non va per saldi.
Che non butta via i soldi.

Che comprarsi, si compra il tailleur per l’ufficio, ma non l’abito da sera con gli Swarovski che è evidente già mentre lo provi e ne perdi i primi cristallini che mai e poi mai lo metterai (figuriamoci ri-metterai), ma che non riesci a mollare in camerino perché non si sa mai, un invito all’ultimo. Perché il luccicante va su tutto.

Che dice no alle piume – che richiedono una cura speciale quando poi ti ricordi che anche loro si devono lavare. Che le scarpe, quando le sceglie, le sceglie col tacco donante, ma “camminabile”. Che c’ha la ballerina in borsa nel caso ci sia qualche cambio di programma e si ritrovi con della strada non programmata da fare (a piedi. Senza finire in lacrime).

Che se sente il prurito per il tulle, se lo cerca, se lo trova e se lo noleggia online.
E si toglie il pensiero. Anche del tintore cinese dietro l’angolo, quello che c’ha un listino base lavaggio abito a 8€ e che a te lievita, inevitabilmente intorno ai 25 perché la stoffa è troppa, perché il tessuto è raro, perché la macchia è indelebile.

Agnese – così si chiama questa perla dello shopping che quando glielo chiedi, però, a te, da personal non te la fa – sa sempre cosa mettersi e quando metterlo.

È una di quelle che in valigia non mette solo lo stretto necessario, ma c’ha sempre anche quel capo fuori dall’ordinario. Che passa dal “salva-serata” al solo per una serata.

Che come è vestita in ufficio poi può direttamente uscire a cena, senza sembrare mia nonna in cariola dopo le 19, sexy ma senza esagerare dalle 9.

Una di quelle che c’ha l’armadio adeguato anno dopo anno, nonostante lo scorrere degli anni.

Una di quelle che ti fa interrogare sul senso dello shopping.
E della moda in generale.

Sul perché realmente pensi di aver bisogno di quel vestito.

Diciamocelo: di quel gran bel vestito.

Di quello che hai visto in vetrina aspettando arrivassero i saldi.
Che ti sei detta, sotto le feste non lo compro, perché eri troppo impegnata a spendere per terzi.

Che sai che certo, potresti farne a meno, ma che ti fa sempre gratificazione il secondo lunedì dopo le ferie, quando davvero ti chiedi il senso del mondo, della società, del suo essere fondata sul lavoro e soprattutto del tuo di lavoro.

Perché, certo, è uno sfizio, è quel qualcosa di cui pensi di poter fare a meno, ma che inevitabilmente, soprattutto a quel prezzo, ti sembra mancare ogni mattina dall’armadio.

Che ne avrai già 100.000, ma che con più ne hai con più ne vorresti.
Pur sapendo che non li indosserai.
Pur sapendo che non dovresti.

Una di quelle, che quando la metti al corrente delle tue remore, te lo conferma che in effetti no, non dovresti.
E non perché è radical chic.

O perché, sull’onda e sullo strascico del Natale, si sente più buona.
Ma perché davvero ci pensa al Pianeta.
Che pensa ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli.
Che manco tu ci pensi, quindi ti senti proprio una persona ancora più orrenda.

Dato che ne sei consapevole anche tu.

Di cosa? Che l’accumulo di capi d’abbigliamento ha un nome e cognome (Fast Fashion), che il suo abuso ha una sindrome tutta sua - che è evidentemente anche una sindrome tutta tua – dicesi shopping compulsivo e che il suo modello di business (a differenza del tuo) si basa su un uso e consumo a ripetizione, che, gli va riconosciuto, lo ha portato a un discreto successo.

Nel giro di 30 anni – dal 2000 in poi l’exploit maggiore – gli armadi di noi fanciulle – ma non solo – si sono riempiti di maglie, magliettine, gonne, gonnelline, jeans (strappati, zampati, skynnati, sfrangiati…), tailleur e vestiti(ni), frutto di un bisogno di acquisto compulsivo. Allargandosi (o comprimendosi) a dismisura.

Alimentata da un’offerta sempre più ampia la domanda è cresciuta, e viceversa, in un circolo vizioso senza via d’uscita. Le “vecchie” 2 collezioni annuali, AW e SS, sono diventate obsolete. Uno sbiadito ricordo soverchiato da 52 cambi di stagione – praticamente: uno a settimana. Da Primark a H&M, da Pull&Bear a Zara, la frequenza con cui ha pompato il cuore della produzione ha portato al raggiungimento di un traguardo di niente popò di meno che 100 miliardi di prodotti commercializzati in 12 mesi (14 capi a persona, così, solo per fare una media spannometrica), il 60% in più rispetto a 15 anni fa.

E che fine fanno tutti questi vestiti?
Che fine farebbe quel vestitino che, ormai è ufficiale, il buon senso della tua amica (quella che compra al mercato capi a lungo deterioramento) ti ha ormai convinto a non comprare?
Ben che gli vada in fondo all’armadio.

In attesa che lo metta tua figlia, o la figlia di tua figlia.
Sempre che il pianeta regga abbastanza (e che tu lo rispetti abbastanza).

Ora di una settimana l’abitino te lo sei misurato, lo hai apprezzato, hai deciso di metterlo la sera successiva, ti sei rivista, aveva già stancata, lo hai scartato. E, mancando ancora 355 giorni a Natale non hai manco potuto accumularlo tra le cose da ri-regalare. Perché il fashion è fast, ma è comunque fashion, per cui segue le mode, e, come tale, è un attimo che passi di moda. Quindi o aspetti 15 anni per rimetterlo in circolo – che allora è vintage e quindi fa figo – oppure una piccola rapidissima stagione e voilà, è palesemente riciclato.


Manco lo avessi comprato al mercato.

Magari lo avessi comprato al mercato.

Forse sarebbe durato.